Per gentile concessione di MONITOR
pubblicato sul numero 1/2002
anno VI numero 20

Riflessioni sul comportamento dell’anestesista in caso di incidente professionale

di Giulio Frova e Francesco De Ferrari
- introduzione
- comportamento nell'immediatezza dell'incidente
- comportamento successivo all'incidente

- bibliografia
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INTRODUZIONE

Come in tutta l’attività medica, anche in Anestesiologia persiste l’errore umano nonostante il miglioramento tecnologico, ma nell’opinione pubblica sono ampiamente diffusi una serie di convincimenti che non corrispondono del tutto alla realtà. Se oggi nessuno più concorda con una posizione acritica del paziente, in passato caratterizzata da una visione quasi sacrale di tutta la classe medica, che lo induceva a non cercare mai tutela, non solo perché convinto delle scarse probabilità di vedersi rendere ragione, ma soprattutto perché disposto a ritenere qualsiasi insuccesso come inevitabile [1], altrettanto errato è il convincimento opposto e cioè che la medicina moderna e le manovre anestesiologiche in particolare debbano essere esenti oggi da qualsiasi rischio.
Con questa aspettativa, l’incidente perioperatorio grave (caratterizzato dalla morte o da conseguenze disastrose per il paziente) non solo non viene più accettato dal pubblico, ma viene sempre visto come la conseguenza dell’incapacità ell’anestesista di prevedere gli eventi, di scegliere la tecnica giusta o di eseguire lege artis una procedura.
Opportunamente è stato sottolineato che “Nell’ambito della negligenza e dell’imprudenza medica, l’identificazione del “mezzo” cui il medico si obbliga – nella specie le modalità diligenti e prudenti
della prestazione – non è sempre agevole e non può affrontarsi alla leggera, come molti, pure in buona fede, tendono a fare, basandosi sul criterio “a posteriori”, cioè giudicando in base all’esito sfavorevole del caso, che certo esercita una notevole ed umanamente comprensibile suggestione” [2].
In realtà, la responsabilità medica (intesa come colpa) sussiste in quanto l’errore sia riconducibile ad un comportamento (omissivo o commissivo) inadeguato e da tale errore derivi causalmente un
eventuale danno subito dal paziente.
Qualora sia verificata la sussistenza di tale rapporto causale, un fatto produttivo di danno può configurarsi sia come illecito penale, ossia come reato e pertanto passibile di sanzione penale, sia come illecito civile, cagionante un danno ingiusto che obbliga l’autore al risarcimento.
Non è questa la sede per un’esauriente disamina della metodologia di accertamento del nesso causale: è solo il caso di ricordare, in estrema sintesi, che in tema di colpa professionale medica “La medicina legale non è spesso in grado di soddisfare in termini così chiari e pienamente soddisfacenti le esigenze della giustizia e deve dunque avvalersi del criterio di probabilità. Tale criterio, tuttavia, può essere particolarmente rischioso se non viene applicato con il massimo rigore metodologico, perché in caso contrario esso può essere fonte di errori giudiziari” [2]. Basti ricordare in proposito una sentenza non più recente della Corte di Cassazione (a cui sono seguite molte altre conformi) nella quale si affermava la possibilità di ricorrere ad “Un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie quando non risulti la preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori idonei a provocare l’evento medesimo” (Cass. Pen. Sez. III, 13 maggio 1982, n. 3013). Ancora è solo da ricordare che la responsabilità penale è individuale (Art. 27 della Costituzione) e ciò anche nelle attività in équipe, in relazione alle quali è stato sottolineato che “La regola ordinaria è che ciascuno risponda soltanto della inosservanza della lege artis del proprio specifico settore” [3] proprio “Perché solo in questo modo ciascuno è messo in grado di operare più efficacemente e con la dovuta concentrazione nell’espletamento delle funzioni di rispettiva competenza.
Questa è del restola logica della responsabilità penale personale” [2].
Tornando agli aspetti applicativi pratici in caso di incidente professionale, che quest’ultimo sia sempre espressione di un errore colposo è spesso insostenibile, perché l’incidente può essere conseguenza
della estrema gravità del paziente o dell’instaurarsi di una complicanza eccezionale, che l’anestesista può talvolta anche prevedere e segnalare, ma che non è sempre possibile prevenire. Talvolta il danno avrebbe potuto verificarsi comunque indipendentemente dalla condotta colposa tenuta dal medico [4].
Purtroppo le sequele giudiziarie sono oggi non solo più frequenti ma soprattutto sempre più spesso caratterizzate da un’evoluzione molto lenta e da un risultato sempre più imprevedibile.
Gli anestesisti esperti sanno perfettamente che la maggior parte del loro lavoro attuale costituisce la risultante di un continuo bilanciamento dei rischi, ma c’è una certa ritrosia in alcuni a comunicare tale elementare verità al paziente; quello che sembra meno noto e certamente meno pplicato è il criterio che la motivazione delle scelte e la loro documentazione possano essere la più gli articoli 18 importante difesa del loro operato.
L’imprevedibilità dell’andamento di questi strascichi giudiziari equivale a dire che un anestesista non potrà mai avere la garanzia di uscire da tali vicende in modo rapido e incolume anche se è un professionista che fa con scrupolo e preparazione il suo lavoro, conosce le linee guida suggerite dalle Società Scientifiche, valuta in tutte le scelte importanti il bilancio tra rischi e benefici per il paziente, lo informa per acquisire il suo consenso e registra in modo chiaro e completo ogni particolare saliente del suo lavoro. Per quanto favorevole possa essere la conclusione giudiziaria dell’incidente, la lentezza del procedimento comporterà sempre un alto prezzo da pagare, psicologico ed economico.
Il comportamento di un anestesista nella immediata fase dopo l’incidente può tuttavia influenzare tale evoluzione, evitando di giungere a denunce ingiustificate o riducendone la portata. Nonostante il fatto che il coinvolgimento emotivo, del tutto comprensibile nei familiari, sia comunque costante anche negli operatori coinvolti, spesso non è altrettanto manifesto; capita infatti a volte di assistere a una rimozione irrazionale del problema da parte del medico e all’applicazione di una tecnica di difesa nota come “tecnica dello struzzo” [5]: l’anestesista si comporta come se l’incidente non fosse avvenuto o non lo riguardasse e resta passivamente in attesa di una evoluzione spontanea dei fatti.
Le considerazioni che seguono, dettate dalla lunga esperienza degli AA come consulenti tecnici e periti, sono particolarmente utili nelle situazioni peggiori, ma valgono anche per incidenti minori (denti rotti, reazione a cerotto, ustioni limitate, ecc.) in quanto possono avere anch’essi uno sbocco giudiziario, non di rado rappresentato da un procedimento penale originato da una denuncia-querela sporta dal paziente al fine di ottenere un risarcimento del danno rapido e, spesso, ipertrofico. È noto infatti che la querela, in molti casi, ha il solo scopo di “velocizzare” l’iter del risarcimento da parte della assicurazione del medico, con una sorta di, più o meno esplicito, “ricatto”, legato alla possibilità di tacitare la parte civile eliminandola dal processo, quando non addirittura di poter estinguere il procedimento. In caso di incidenti minori, specie qualora la “colpa” sia difficilmente escludibile, sarebbe auspicabile evitare improbabili difese ad oltranza, ed anzi sollecitare una composizione transativa del caso da parte della compagnia di assicurazione, proprio per evitare lo stress di un procedimento che comunque non risulta ininfluente per l’anestesista, se non altro (se pubblicizzato) sul piano dell’immagine.
Le situazioni “peggiori” sono costituite dagli incidenti gravi che, per le condizioni cliniche o l’età del paziente, giungono totalmente inaspettati o sono caratterizzati da un clima di alta tensione emotiva e/o da un interesse quasi morboso dei media: si pensi ad esempio alla morte di un bimbo in un intervento chirurgico minore o alla morte di una persona molto nota nel circondario dell’ospedale o a più morti nello stesso incidente. Tali evenienze, trovando tutti - dall’anestesista o dal team chirurgo-anestesista ai familiari - psicologicamente impreparati, comportano gravi ripercussioni sugli operatori (senso di colpa, malessere fisico, ricerca di altrui responsabilità, richiesta di sostegno, ecc.) anche per il già descritto costante e diffuso convincimento che, in questi casi a rischio basso, qualcuno debba sempre avere sbagliato e debba pagare. Ciò comporta un carico emotivo e di aggressività così profondo che non può essere lasciato totalmente a sé stesso.

COMPORTAMENTO NELL’IMMEDIATEZZA DELL’INCIDENTE

Mai come in questi frangenti l’utilità di una chiara, puntuale e diligente compilazione della documentazione appare più evidente. Oltre ad essere uno degli obblighi propri del medico previsti dal Codice di Deontologia Medica del 1998, all’art. 23, Cartella Clinica (“la cartella clinica deve essere redatta chiaramente, gli articoli 20 con puntualità e diligenza nel rispetto delle regole della buona pratica clinica e contenere, oltre ad ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate”), la modalità di stesura della documentazione può successivamente diventare uno strumento di misura della professionalità del medico e non essere solo elemento di mera accusa nei suoi confronti.
Sostanzialmente la cartella clinica possiede un valore documentale, rappresentando uno strumento di registrazione dei dati del paziente relativi alla sua vicenda clinica: il fine primario della cartella clinica infatti è l’ottimale registrazione dell’assistenza sanitaria prestata al ricoverato.
Una parte della Dottrina, forse la più cospicua, in accordo con numerose pronunce della Suprema Corte, riconosce alla cartella clinica il possesso di tutti i requisiti propri dell’atto pubblico che, se dotato di certezza legale, implicherebbe per il Giudice un vincolo di verità su ciò che il pubblico ufficiale vi ha attestato, sempre che la parte privata, che vi ha interesse, intenti una querela per falso, mirante ad accertare appunto la falsità del documento [6].
La definizione della cartella clinica come atto pubblico di fede privilegiata compilato da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio comporta una serie di conseguenze sul piano giuridico di non lieve portata, dall’aggravante qualora si scrivessero affermazioni non rispondenti al vero (falso ideologico) e addirittura se la cartella venisse contraffatta o alterata (falso materiale), alla responsabilità per omissione o rifiuto di atti d’ufficio o per la rivelazione di segreti d’ufficio. Anche senza tali estremi, l’assenza di registrazione dovrebbe essere equivalente per la Legge ad una prestazione professionale inadeguata.
In realtà la Dottrina giurisprudenziale è orientata nel senso di riconoscere alla cartella clinica la natura di atto pubblico “inidoneo a produrre piena certezza legale, non risultando dotato di tutti i requisiti richiesti dall’art. 2699 CC” e facente quindi fede fino a prova contraria.
Viene così escluso che la cartella clinica possa qualificarsi come semplice attestazione di verità o di scienza tale da assumere la configurazione di certificazione ai sensi degli artt. 477 e 480 CP [7].
Recentemente si è sostenuto che sotto il profilo della sua valenza documentativa la cartella clinica può essere classificata come tertius genus, “…collocandosi in una posizione intermedia tra la scrittura privata e l’atto pubblico ed essendo ragionevolmente assimilabile ad una certificazione
amministrativa …” [8].
Il trattamento immediato del paziente, che esula dal tema di questo lavoro, ha ovviamente la priorità assoluta, ma ad esso deve seguire una relazione immediata su quanto avvenuto al responsabile della propria unità operativa (ex primario) che è il tramite con la Direzione Sanitaria (o, nel caso di incidente occorso al primario, da parte di quest’ultimo direttamente alla Direzione Sanitaria).
Immediata non equivale tuttavia né ad affrettata né di getto, ma nel rispetto di alcuni limiti temporali come un equo tempo di riflessione clinica, il rispetto della sequenza cronologica nella registrazione degli eventi e una compilazione che deve portare ad inoltrarla entro il giorno dell’incidente. È utile ad esempio stilare una prima bozza col maggior numero di annotazioni possibile, stesura che obbliga a riflettere in profondità sull’accaduto ripercorrendone in dettaglio gli eventi ed eventualmete discutere con il responsabile del servizio le modalità di stesura definitiva. Non è raro infatti che questa bozza sia incompleta rispetto a quanto realmente avvenuto, che si trascurino particolari apparentemente ovvii, che contenga anche errori banali di trascrizione e si diano per scontati dati che non sarà più possibile inserire successivamente.
Si presume inoltre che la relazione, a differenza della cartella di anestesia compilata nell’imminenza dell’incidente e che spesso ne rispecchia la drammaticità in una grafica limitata e non sempre di agevole lettura, sia stilata nelle ore successive con maggiore serenigli articoli 21 tà, chiarezza ed accuratezza e senza gli scherzi della memoria, che possono caratterizzare il riesame dell’incidente a distanza di anni.
La relazione è tanto più urgente se il paziente, sopravvissuto all’incidente, viene trasferito in una terapia intensiva di altro ospedale. Una documentazione vaga e incompleta o del tutto assente non fa una bella impressione nei colleghi del reparto di destinazione. Non basta che l’anestesista coinvolto nell’incidente accompagni personalmente e in condizioni di sicurezza il paziente fino alla terapia intensiva del proprio o di altro ospedale, perché questo comportamento è ritenuto il minimo professionalmente accettabile.
La sua relazione e la personale descrizione dei fatti connessi con l’incidente rappresenta un riferimento importante non solo per il prosieguo del trattamento terapeutico da parte dei colleghi ma anche per l’eventuale problema legale successivo e potrà essere messa agli atti, in caso di sequestro della cartella, solo se prodotta in tempo utile. Non si dimentichi che, in un incidente mortale avvenuto in sala operatoria o nel perioperatorio immediato, l’autorità giudiziaria viene coinvolta direttamente dal medico necroscopo (Direttore Sanitario o chi da lui delegato) con pochissime eccezioni e che il sequestro della documentazione può avvenire anche a distanza di poche ore dall’accaduto.
Su cosa si deve scrivere nella cartella clinica vi è una illuminante definizione fatta dalla American Hospital Medical Record Association che ben si accorda con le norme ISO 9000 sulla qualità [9] e che così recita: “La cartella costituisce il chi, cosa, perché, quando e come del trattamento di un paziente in ospedale”.
Spesso indifferenti a tale obbligo, alcuni anestesisti pensano che, oprattutto in caso d’incidente, sia “saggio” o semplicemente vantaggioso non fare relazioni estese, limitandosi a scrivere poche note nella cartella di anestesia. Per quanto riguarda quest’ultima, esiste ancora un’ampia varietà di abitudini, da ospedali (soprattutto privati) che hanno modulistica del tutto inadeguata a proposte di cartelle di anestesia così inutilmente ampie e dettagliate da essere destinate alla non compilazione.
Prescindendo dalla modulistica e riferendosi all’incidente in sé, ciò che viene registrato è spesso incompleto, confuso o soltanto graficamente indecifrabile da parte di un osservatore esterno non specialista in anestesia e contiene spesso dimenticanze per le particolari condizioni che hanno caratterizzato il momento nel quale è stato scritto. Dal momento che cartella clinica e cartella di anestesia acquistano il carattere di definitività in relazione ad ogni singola annotazione ed escono dalla disponibilità del loro autore al momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata, e di conseguenza non vanno alterati, cancellati, bianchettati o sostituiti con fogli “puliti”, la relazione è l’unico mezzo lecito per integrare la cartella e spiegare meglio i tempi e i comportamenti.
La cartella di anestesia dovrebbe essere comunque sia la registrazione leggibile di quanto avvenuto e di tutti gli eventi pertinenti, sia il compendio di tutti i dati salienti del paziente (storia, fattori di rischio, visita preoperatoria, quantificazione del rischio, tecnica di anestesia concordata, avvenuta informazione e consenso, procedura attuata, farmaci e monitoraggio impiegati, posizione sul tavolo, eventi chirurgici salienti, ecc.).
Per il consenso in emergenza si rinvia a trattazione più estesa [10]. Se si accerta che la cartella contiene un dato incompleto o errato, si possono fare aggiunte tardive [7] purché motivate, firmate e datate, mentre una semplice linea o un riquadro (o “cancello”, da cui cancellare) vengono fatti sulla parola errata senza renderla illeggibile. Come per la bozza di relazione, la supervisione della cartella dopo un incidente maggiore sono un processo continuo se il paziente sopravvive, perché non è raro che affermazioni inesatte fin dall’inizio vengano ripetute involontariamente nella documentazione successiva. L’anestesista coinvolto nell’incidente farà bene a segnalare ai collegli articoli 22 ghi ogni eventuale errore reiterato nella cartella per la sua correzione con le modalità viste sopra. Questo vale anche per le eventuali note degli infermieri, considerate oggi parte integrante a tutti gli effetti della cartella clinica. Tale diario infermieristico, che dovrebbe essere centrato solo sul rilievo dei dati e sulla descrizione dei fatti, molte volte contiene impropriamente giudizi clinici e opinioni soggettive, talvolta conflittuali con quanto riportato dal medico. Tali contraddizioni possono avere un ruolo non indifferente in un successivo contenzioso giudiziario.
Come già rilevato, alcuni anestesisti ritengono che le carte non scritte o incomplete possano essere loro di aiuto, soprattutto quando si tratta di un errore palese; questa opinione, che rispecchia il luogo comune che “se un fatto non è scritto, esso non è mai accaduto”, toglie al consulente della difesa uno strumento per dimostrare che l’apparente errore sarebbe inserito in un comportamento per altro corretto [11]. Carte volutamente confuse portano invece molto spesso al risultato contrario: rendendo apparentemente difendibile una causa, inducono spesso l’assicurazione a pagare solo dopo la sentenza di condanna, con tutti gli inconvenienti che seguono a tale atteggiamento.
La relazione dovrebbe essere estesa, ma deve attenersi ai fatti realmente accaduti senza opinioni, illazioni, confessioni, frasi di biasimo o iprovazione, attribuzione di responsabilità, con l’eccezione del riportare le eventuali motivazioni per una scelta fatta quand’essa fosse diversa da quella apparentemente più logica o più diffusa. In essa, l’anestesista dovrebbe indicare il ruolo avuto nella gestione del paziente, il momento nel quale ha avuto a che fare col caso, data e nome di chi ha fatto la visita anestesiologica, le implicazioni della storia clinica del paziente, quali esami sono stati valutati e quali eventualmente richiesti dopo la visita e i relativi valori normali o patologici riscontrati, le informazioni documentate o soltanto note, la premedicazione, l’intervento proposto dal chirurgo e quello realmente eseguito, l’anestesia pianificata col paziente e quella eseguita, sede e ora della prestazione anestetica, il monitoraggio usato e la posizione del paziente, i fatti accaduti in dettaglio dall’inizio della procedura pianificata, il nome e il ruolo avuto da eventuali testimoni presenti all’inizio dell’anestesia e al momento dell’incidente o intervenuti successivamente, la descrizione dettagliata dei tentativi di rianimazione fatti con dosi e modalità di somministrazione, il controllo e trattamento successivo, ecc. Quando l’incidente coinvolge più persone, come succede spesso in anestesia (più anestesisti o anestesisti e chirurghi) è opportuno discutere una comune versione qualora possibile, ma fare comunque relazioni distinte a futura memoria.
La relazione originale, datata e firmata nella sua versione definitiva, va messa in cartella prima dello sviluppo di un’eventuale azione legale e l’eventuale sequestro della documentazione. A fronte di un’ampia, veritiera e dettagliata relazione scritta, è prudente dire il minimo indispensabile verbalmente ad evitare tutta la serie di pettegolezzi e commenti che purtroppo caratterizza tali evenienze.
Altrettanto precoce deve essere il colloquio coi familiari. La chiave per minimizzare i problemi dopo un incidente maggiore sta nella comunicazione [5, 12]. È molto più difficile a volte della stesura della relazione, ma molto più efficace di quella per fermare l’iter giudiziario incombente [13]. Non si devono mai comunicare per telefono notizie di questa portata; il telefono serve solo per convocare i familiari, possibilmente non soli, per omunicazioni “estremamente importanti”. Nel colloquio, che dovrebbe avvenire in uno studio e non nel corridoio, si cerca di proseguire per gradi:
a) si inizia col dare subito la sensazione di partecipazione emotiva e dispiacere per l’accaduto,
b) si dà poi la notizia di quanto avvenuto (“è morto”, “ha un danno”) in modo chiaro ma umano e rispettoso e usando il nome del paziente, sottoligli articoli 24 neando anche lo sforzo fatto per salvarlo,
c) si dà una spiegazione veritiera e essenziale solo se essa è assolutamente palese; se non è chiara l’origine dell’incidente, ci si limita a esporre i fatti ammettendo che non si conoscono le cause.
Con più ipotesi sulle cause dell’incidente, nessuna deve essere presentata in modo definitivo, ricordando che eccessivi dettagli non vengono recepiti, d) l’efficacia della comunicazione si ha solo se l’aspetto umano del colloquio viene salvaguardato e ciò non equivale ad un invito a simulare dolore, ma ad esprimere partecipazione con sincerità.
L’anestesista coinvolto nell’incidente deve cercare di non delegare ad altri il colloquio; se è molto giovane, meglio sia presente un collega anziano; in nessun caso deve essere il solo chirurgo a condurre il colloquio. Il non esprimere disapprovazione per l’operato di altri è regola che vale per tutti; da soli è facile lasciarsi sfuggire qualche inutile nota di biasimo nel entativo di alleggerire la propria posizione. Se vi è coinvolgimento di molti, si dovrebbe limitarsi a quanto concordato insieme e, se non vi è stata concordanza, ci si limita all’esposizione dei fatti.
Il colloquio serve anche a sapere cosa avevano recepito i parenti circa l’intervento, i suoi rischi e il suo grado di necessità.
Dopo il colloquio, si chiede se vogliono vedere il familiare sopravvissuto e si spiega loro il ruolo delle macchine e dei vari tubi. Nel caso di decesso, si dovrebbero anche chiarire i problemi connessi con l’autopsia, la cui esecuzione può non dipendere dai sanitari, ma dal magistrato, divenendo in tal caso garanzia che tutto si chiarisca al meglio.
Può anche essere opportuno informare i familiari che spesso l’esito dell’indagine autoptica può pervenire dopo un periodo di tempo non breve, specie se disposta dal magistrato, e ciò sia per esigenze tecniche di indagine sia per i tempi legati agli aspetti procedurali (avvisi alle parti, deposito degli atti, ecc.).
Consentire ai parenti di fare delle domande può prevenire azioni successive ed un medico partecipe e sincero verrà successivamente ricordato come tale.
È molto frequente sentire dai parenti che a loro interessa soprattutto sapere quanto è accaduto e l’ostilità nasce spesso dall’aver impedito loro ogni comunicazione oppure dalla sensazione, spesso determinata dalle modalità del colloquio e non dalla realtà, che le informazioni siano state volutamente nebulose allo scopo di nascondere qualcosa.
Di non minore rilevanza, ma relativamente rara, è la necessità di bloccare attrezzature, presidi e farmaci impiegati allorquando esiste il sospetto di un guasto, chiudendoli in una scatola e segnalando quanto fatto in cartella. Non riusarli consente una successiva valutazione da parte di un esperto.
È buona norma infine, sul piano umano e organizzativo, che l’anestesista coinvolto in un incidente sia sostituito nel lavoro successivo da un collega sia per motivi emozionali, sia per consentirgli di dedicarsi completamente al paziente, ai familiari e alla ricostruzione di quanto avvenuto.

COMPORTAMENTO SUCCESSIVO ALL’INCIDENTE

Se il paziente è sopravvissuto, l’anestesista dovrebbe fare il possibile per visitarlo giornalmente, nei primi giorni dopo il fatto, anche se ricoverato altrove e non evitare gli incontri coi familiari, che notano questo comportamento attribuendolo a disinteresse. Se ciò non gli è proprio possibile, deve far sapere ai familiari, tramite i colleghi del reparto che lo assistono, che continua a interessarsi del loro congiunto.
L’evoluzione successiva è, come già detto, difficilmente prevedibile e può variare sensibilmente. In caso di decesso le cui cause siano chiare, in assenza sia di palesi errori sia del sospetto di colpa e senza una ostilità dei familiari verso l’anestesista (dettata, come già ricordato, per lo più dalla cattiva comunicazione) il caso può giungere in tempi brevi all’archiviazione.
Quasi sempre, comunque, all’anestesista, in caso di indagine disposta dal magistrato, perviene una “informazione di garanzia” e cioè la comunicazione dell’indagine in corso sul suo operato in relazione all’evento sfavorevole occorso al paziente, e della facoltà di nominare un proprio difensore e un proprio consulente. In tali casi è quantomeno opportuno provvedere con assoluta tempestività alla segnalazione dell’avvenuta comunicazione giudiziaria sia all’ufficio Affari Legali della struttura ove si opera sia alla propria Assicurazione (e ciò al fine della copertura del rischio di risarcimento eventuale del danno), ma soprattutto è assolutamente indispensabile provvedere immediatamente alla nomina del proprio difensore e del proprio consulente. Se non si è in grado di trovare l’avvocato difensore di fiducia in tempo reale, è comunque indispensabile prendere contatto con il difensore nominato di ufficio (il cui nome è indicato nell’avviso di garanzia) per provvedere alla nomina del consulente tecnico di propria fiducia, affinché egli possa partecipare a tutte le operazioni tecniche disposte dal magistrato, prima fra tutte l’autopsia che solitamente viene effettuata in tempi strettissimi. Gli atti non ripetibili, infatti, quale è l’indagine autoptica, è sempre meglio siano direttamente seguiti dal consulente di fiducia: il difensore può essere cambiato anche dopo, in quanto la sua opera tecnica, nelle fasi iniziali del procedimento, il più delle volte può essere svolta anche da qualsiasi difensore, in quanto ben difficilmente incide nella vicenda.
La scelta del consulente tecnico rappresenta un problema delicato [14]. Negli incidenti anestesiologici (specie in penale) è meglio cercare sempre e dall’inizio un consulente anestesista che si affianchi al medico legale, data la complessità tecnica del nostro lavoro. Dovrà non solo dimostrare l’appropriatezza delle decisioni prese, ma l’inevitabilità della evoluzione anche con le migliori cure. È meglio scegliersi un consulente che, oltre all’informazione teorica, abbia effettiva esperienza pratica, capacità di convincimento elevata, capacità di essere imparziale e che non sia quindi dichiaratamente amico dell’imputato. Deve conoscere bene tutti i fatti e poter disporre di tutte le carte agli atti: se è noto per onestà intellettuale e integrità morale, ciò non può che aiutare a raggiungere l’obiettivo di essere creduto.
Tutte le considerazioni fatte hanno un ruolo importante, ma il momento decisivo verrà nell’udienza, che non dovrà essere lasciata all’improvvisazione, e durante la quale l’abilità dell’avvocato nella scelta della linea difensiva prima e nel porre poi le domande più opportune ai consulenti giocherà un ruolo determinante.
Altrettanto determinante, in udienza, risulterà l’apporto del consulente tecnico di parte sia nel suggerire al difensore le domande o le obiezioni da formulare nel corso delle deposizioni dei diversi testi e consulenti o periti, sia nella sua deposizione, nel corso della quale è opportuno che non assuma comportamenti ex cattedra o “aggressivi” ma che esponga la propria tesi, nel rispondere alle domande od obiezioni propostegli, con pacatezza ed autorevolezza, soprattutto fornendo una interpretazione dei fatti senza cercare di far apparire i fatti stessi diversi dalla realtà.

BIBLIOGRAFIA

[1] Della Sala P. La responsabilità professionale.
In: Medicina e diritto. A cura di M.Barni e A.Santosuosso. Giuffrè, Milano 1995
[2] Fiori A. Medicina Legale nella responsabilità medica. Giuffré, Milano 1999
[3] Jadecola G. I criteri della colpa nell’attività medica di équipe. Giur Mer 1997; 4: 226
[4] Jadecola G. Il medico e la legge penale. Padova 1993; pag. 71
[5] Bacon AK, Mason RL. Cleaning up afterwards and reducing the threat of litigation. Bailliere’s Clinical Anaesthesiology, 1993; 7: 485
[6] Durante Mangoni E, De Limone A. Su alcuni aspetti medico-legali della cartella clinica ospedaliera. Giustizia Penale 1975; 80: 275
[7] Di Pietro O, D’Ancora L. La cartella clinica. Problemi procedurali ed aspetti medicolegali. Martinucci, Napoli 1985
[8] Buzzi F, Sclavi C. La cartella clinica: atto pubblico. Scrittura privata o "tertium genus”. Riv It Med Leg 1997; 4: 1161
[9] UNI EN ISO 9000: 2000
[10] Frova G, Santosuosso A. Situazioni di emergenza e pazienti incapaci. In: Il consenso informato. Raffaello Cortina, Milano 1996; 185
[11] Eichorn JH. Risk management in anesthesia. ASA Refresher Courses 1996; 22: 117
[12] Marrow J. Sudden death of a family member. In “Communication skills in medicine”. CRK Hind ed. BMJ, London 1997; 126
[13] Macnab F. After the catastrophe, handling the distressed and hostile family. Australasian Anaesthesia,1990; 2: 83
[14] Kidder TM. The expert witness. Wisconsin Medical Journal 1989; 88: 33

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Ultima modifica 17/03/03