La Corte, in tale sentenza, ha testualmente affermato:
"...L'attività medico - chirurgica è
sicuramente da considerare di altissimo valore sociale e, dunque, preziosa,
insostituibile e meritoria. Essa deve svolgersi nel rispetto di alcuni
fondamentali principi al di là dei quali essa sconfina nell'illecito,
che è poi, nella specie, le-sione di alcuni beni fondamentali dell'individuo,
quali il diritto alla salute e all'integrità fisica, trasformandosi
così in aberrazione, sopruso e violenza".
Tali beni trovano proprio nella Carta Costituzionale la massima consacrazione e tutela, laddove essa stabilisce l'inviolabilità della libertà (articolo I 3, l° comma), il diritto alla salute e il diritto di non subire trattamenti sanitari obbligatori al di fuori dei casi previsti specificamente dalla legge (articolo 32, I° e II° comma). In questo ambito deve inquadrarsi il disposto dell'art. 5 del Codice Civile regolante gli atti di disposizione del proprio corpo, che pur se collocato in un contesto normativo privatistico, deve nondimeno considerarsi espressione di un principio generale dell'ordinamento e avente dunque valore di norma imperativa e inderogabile.
Prosegue quindi la Corte affermando: "Orbene la
Corte di Assise, ben consapevole delle dispute giurisprudenziali e soprattutto
dottrinali sorte e tuttora in atto circa il fondamento
del-la liceità dell'attività medico chirurgica, ritiene che
non si debba e non si possa prendere posizione per l'una o per l'altra
tesi, non solo perché ciò non è strettamente necessario
ai fini della presente decisione, ma anche perché in tal modo si
verrebbero a creare, sia pure indirettamente per il medico e per il chirurgo
in particolare, possibili condizionamenti e remore psicologiche all'esercizio
della propria attività in dipendenza del variare dei sempre opinabili
i indirizzi giurisprudenziali e dottrinali con danno, in ultima analisi,
proprio di coloro che si vorrebbe tutelare e cioè gli ammalati".
E ancora: "È sufficiente constatare che
dal contesto delle norme sinora richiamate, soprattutto di quelle di rango
primario contenute nella Carta Costituzionale, emerge in maniera evidente
un principio basilare al quale l'attività del medico deve unificarsi
e comunque sottomettersi: il consenso del malato. Il che corrisponde ad
un principio personalistico di rispetto della libertà individuale
e o una configurazione del rapporto medico paziente che individua nella
figura del paziente un soggetto portatore di diritti e quindi come uomo
- persona, uomo - valore e non come uomo - cosa, uomo - mezzo, soggetto
a strumentalizzazioni anche odiose per fini che sono stati spesso ammantati
di false coperture di progresso scientifico e d'utilità collettiva.
Giustamente viene ricordato come i principi costituzionali in materia abbiano
trovato concreta appellazione in Leggi ordinarie - quali la nr. 180/1978,
in materia di Istituti Psichiatrici e la nr. 833/1978 istitutiva del Servizio
Sanitario Nazionale
- che hanno posto il consenso del paziente quale
elemento centrale del sistema".
L'importanza delle affermazioni della Corte di Assise in tema di fondamento della liceità del trattamento medico chirurgico è veramente notevole.
La Corte poi, sorvolando sulle dispute dottrinali sulle varie teorie ha fatto delle puntualizzazioni veramente innovative.
E segnatamente ha collocato l'articolo 5 del Codice
Civile ("Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando
cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica e
Così si capisce l'interesse quando siano altrimenti contrari all'ordine
pubblico e al buon costume") nell'ambito degli articoli 13 e 32 della Costituzione
puntualizzando che quest'ultimo (art. 32) è una norma di rango primario
che, tutelando la salute come fondamentale diritto dell'individuo, pone
un principio all'interno del quale, e solo all'interno del quale, si colloca
il disposto del articolo 5 del Codice Civile. Ciò comporta che il
limite della diminuzione permanente dell'integrità fisica in relazione
agli atti (li disposizione del proprio corpo è necessariamente "inoperante"
in caso di atti (medico chirurgici) volti alla tutela della salute della
persona ovviamente consenziente (in tal senso Daniele Rodriguez, "Rivista
italiana di medicina legale", 1991, fascicolo IV, pag. 3).
La tesi seguita dalla Corte trova un autorevole
precedente in dottrina. Afferma infatti il Riz: "L'articolo 5 del Codice
Civile va esaminato dal punto di vista del dettato costituzionale (art.
32 Cost.), per il quale ogni atto deve trovare un suo limite insuperabile
nella tutela della salute individuale e collettiva che è garantita
attivamente dalla Repubblica e deve essere osservata dal singolo quale
individuo e quale membro della collettività.
dello Stato a salvaguardare
la salute della persona e con essa la sua integrità
fisica e la sua vita e si capisce anche il diritto - dovere del singolo
di conservare la propria integrità fisica per la società
evitando di compiere atti che siano in contrasto con tali principi
(in tal senso Riz R., "Il consenso dell'avente diritto", Caedani, Padova
1979, pag. 96).
Sempre in quest'ottica un altro Autore (Fortuna)
ha ritenuto legittime le pratiche di sterilizzazione, affermando: "Nell'ambito
della valutazione della portata normativa dell'articolo 5 del Codice Civile,
deve quindi tenersi conto anche della fondamentale presa di posizione della
Corte Costituzionale anche a prescindere da ogni discussione circa il carattere
precettivo o programmatico della disposizione. L'indivi-duo ha un diritto
soggettivo alla tutela della salute (che la collettività ha interesse
a proteggere).
L'ordine pubblico non può impedire e anzi
deve permettere e favorire quegli atti di disposizione che implicano una
diminuzione permanente dell'integrità fisica ogni volta che, sia
pure al di fuori dello stato di necessità, il sacrificio dell'integrità
sia reso necessario o sia altrimenti bilanciato dai miglioramenti delle
condizioni di organi del corpo diversi da quello sacrificato che siano,
però, importanti secondo le obiettive valutazioni della scienza
medica in riferimento al bene supremo della salute" (in tal senso Fortuna
E. "Sterilizzazione per evitare il pericolo di vita per eventuali future
gravidanze", Giurisprudenza di merito, parte 2, pag.273,1976).
Intervento chirurgico complesso
con pluralità di fasi:
necessario il consenso informato
del paziente per ogni singola fase quando essa assume una propria autonomia
gestionale
L'importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione 3a Civile, nella sentenza del 15/1/97 nr. 364.
L'anestesia della giovane Signora.
Questi i fatti. Una giovane Signora era stata
sottoposta ad un intervento chirurgico presso l'Ospedale di Ancona ed a
seguito di esso aveva riportato un'invalidità permanente. Sosteneva
la Signora che il tutto era derivato dall'errato intervento di anestesia
mediante puntura lombare. Chiedeva quindi il risarcimento dei danni precisando
che l'evento lesivo di cui essa era rimasta vittima era conseguente al
tipo di anestesia prescelto dall'équipe sotto il profilo sia della
mancanza di consenso informato, rispetto al tipo di intervento, sia al
comportamento colposo dell'anestesista
Tribunale, di Ancona dava torto alla giovane
donna escludendo la colpa professionale dell'anestesista nella verificazione
dell'evento lesivo e sostenendo che lo stesso fu dovuto ad "imprevedibile
reattività meningea della paziente". Quanto poi all'altro rilievo
della mancanza del consenso della paziente all'anestesia con puntura lombare,
il Tribunale affermava che "il consenso" doveva ritenersi "implicitamente
richiesto e prestato dalla paziente in relazione all'intera operazione
chirurgica in quanto l'anestesia effettuata mediante puntura lombare si
presentava in astratto la più idonea rispetto al tipo di intervento
chirurgico praticato ed eseguito".
La Corte di Appello di Ancona confermava in ogni
suo punto la sentenza del Tribunale.
La Corte di Cassazione invece ribaltava la decisione
ritenendo fondata la richiesta di risarcimento danni avanzata dalla donna
sotto l'aspetto della violazione dell'obbligo del consenso informato al
tipo di anestesia.
Nella motivazione la Corte rileva che la formazione
del consenso presuppone una specifica informazione su quanto ne forma oggetto
che non, può non provenire dallo stesso sanitario cui è richiesta
la prestazione.
Nell'ambito di interventi chirurgici complessi
il (dovere di informazione concerne la portata dell'intervento, le inevitabili
difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi si da
porre il paziente in condizioni di decidere su l'opportunità di
procedervi o di ometterlo attraverso il bilanciamento dei vantaggi e dei
rischi.
L'obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali al limite del fortuito che non assumono rilievo secondo il principio dell'"idi quod plerunque accidit" non potendosi disconoscere che l'operatore.
Il sanitario deve contemperare l'esigenza di informazione
con la necessità di evitare che il paziente per remotissima eventualità
eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento. Assume rilievo in proposito
l'importanza degli interessi e dei beni messi in gioco, non potendosi consentire
tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non venga
edotto sui rischi anche ridotti che incidano gravemente sulle sue condizioni
fisiche, o addirittura sul bene supremo della vita.
L'obbligo di informazione inoltre si estende
ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo
che il paziente con l'ausilio tecnico scientifico del sanitario possa determinarsi
verso l'una o l'altra alle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione
dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi.
Prosegue ancora la Cassazione osservando che
la maggior parte degli interventi chirurgici complessi vengono fatti in
équipe e presentano nelle varie fasi in cui si svolgono rischi specifici
e distinti per ogni singola fase. Quando poi ogni fase assume una propria
autonomia gestionale e dia luogo essa stessa a scelte operative diversificate,
ognuna delle quali presenti rischi diversi, l'obbligo di informazione si
estende alla singola fase e ai rispettivi rischi.
Applicando tali principi al caso concreto, prosegue
la Cassazione, se è vero che la richiesta di uno specifico intervento
chirurgico avanzata dal paziente può farne presumere il consenso
a tutte le operazioni preparatorie e successive che vi sono connesse e
in particolare al trattamento anestesiologico, allorché più
siano come nel momento attuale le tecniche di esecuzione di quest'ultimo
e le stesse comportino rischi diversi, è dovere del sanitario -
cui pur spettano le scelte operative - informarlo dei rischi e dei vantaggi
specifici ed operare la scelta in relazione alla assenzione che il paziente
ne intenda compiere.
Per quanto poi concerne l'anestesia epidurale,
essa -secondo la Corte - comportava la adozione dì una "fine tecnica
anestesiologica" e la ricerca dello spazio epidurale poteva risultare in
alcuni casi particolarmente laboriosa con possibilità di penetrazione
nello spazio sottoaracnoideo sì da esporre a rischi maggiori il
paziente.
Da ciò la necessità di uno specifico
consenso, previa una completa informazione in ordine ai rischi. In altri
termini la scelta di una delle tecniche metodologiche anestetiche comportando
diversi fattori di rischio, avrebbe dovuto ottenere un valido e consapevole
consenso della paziente.
Il non averlo fatto integra una violazione delle
regole del nostro ordinamento, sancite dalla Costituzione: dall'art. 13
(la libertà della persona è inviolabile), dall'art. 32 Cost.
(obbligatorietà del consenso nelle prestazioni sanitarie) e nonché
dall'art. 1218 del Codice Civile secondo il quale nel concludere un contratto
(e nella specie trattasi di un contratto di opera professionale) bisogna
comportarsi secondo buona fede. Ciò imponeva dei doveri di informazione
a carico del medico, integrativi rispetto all'obbligo primario di eseguire
correttamente la prestazione professionale richiesta, indispensabili per
i, adempimento della prestazione professionale in senso proprio, sia in
relazione all'intervento chirurgico per così dire principale, sia
anche su tutte le altre operazioni connesse dotate di un minimo di autonomia
gestionale e professionale con propri rischi e propri vantaggi. E non si
può negare che l'anestesia rientra in questo tipo di interventi.
Pertanto, conclude la Cassazione, sussiste la
responsabilità colposa del sanitario anestesista che ha effettuato
la pratica preoperatoria senza una completa informazione e quindi in assenza
del consenso informato del paziente.
(Milano 29-10-1997)
Alfonso MARRA
Giudice
(da Bollettino Ordine dei Medici della Provincia di Milano Commissione di studio "RESPONSABILITA' PROFESSIONALE")
Per informazioni Tel. 02.48.51.61.73
Ultima modifica 17/03/03 |